I Van Der Graaf Generator sono una band molto speciale per il pubblico italiano, e l'unico vero gruppo sopravvissuto della stagione del rock progressivo, considerando che sia gli Yes che i Jethro Tull in circolazione sono in realtà scampoli di passato che utilizzano il nome per mere necessità economiche (l'una senza il frontman, l'altra con solo quello). Dal 2005, anno in cui sono riapparsi come band (Peter Hammill non era mai scomparso, avendo più o meno sempre realizzato un disco all'anno a proprio nome dal 1969), il mio rapporto con la band ed i loro dischi si è piuttosto modificato; cresciuto direi. Da allora ho realizzato un sito (PH VDGG) che tiene traccia del loro lavoro negli anni, ho conosciuto personalmente Hammill, Banton ed Evans, li ho seguiti in concerto, ed ho assistito anche ad almeno uno dei migliori show di Hammill; esperienze che hanno modificato in modo sensibile il mio punto di vista sui loro dischi. Da allora un elemento portante del suono della band, il sassofonista David Jackson, se ne è andato (leggi: è stato allontanato) per problemi caratteriali, ed il trio superstite ha dovuto reinventare gli equilibri del proprio suono. In modo egregio in concerto, come dimostra Live At The Paradiso del 2007, fratello gemello del live Real Time del quartetto del 2005. In modo più strutturato in studio, con due album molto elaborati, molto studiati ed anche riusciti ed apprezzati dal pubblico come il lucido Trisector del 2008, un tentativo di rendere gradevole e contemporaneo le proprie canzoni, e lo sghembo A Grounding In Numbers del 2011, lavoro che i ritmi geometrici e l'esuberanza delle tastiere rendono più affine a certi EL&P se non Gentle Giant (Free Hand) che ai gotici e fiabeschi Van Der Graaf del passato. Gli show del trio dimostrano però che il nuovo materiale non costituisce nulla di più del tessuto sonoro da cui prendere il largo verso gli esaltati e visionari grandiosi affreschi del passato. Mi era capitato in cuor mio di rimpiangere in qualche modo una certa mancanza di coraggio del trio che si presenta al nuovo secolo (millenio) con sobrietà quasi a sottolineare di non essere legati a schemi sonori considerati troppo fuori moda: l'avanguardia ed il rock sinfonico. Qualche cosa deve essere scattato nel concepire ALT, perché qui il gioco dei Van Der Graaf Generator appare niente meno che ribaltato. Non solo ALT non è un disco educato e corretto, ma neanche è un disco che ripesca nel confortante mondo del noto e del passato. ALT non è niente di meno di un disco sperimentale, d'avanguardia, come quelli che comparivano nei negozi di dischi nel 1970 e poco oltre. Alla Pink Floyd o alla Can o Faust per intenderci - in effetti non assomiglia affatto ad alcun disco dei VDGG. Intanto Peter Hammill, tradizionalmente autore principale e front man, non canta neppure. C'era un secondo CD ad accompagnare quel Present del 2005 citato sopra (un doppio cd in studio! Merce più rara di un doppio vinile…), un disco di improvvisazione in cui il quartetto si riscaldava in studio di registrazione per ritrovare l'intesa dopo un così lungo silenzio, per registrare le nuove canzoni. Peter Hammill paragona questo ALT a quel lontano disco, ma si tratta più di un richiamo al metodo di lavoro che al suono; per effetto dell'affascinante sax di Jackson la seconda parte di Present era venato di improvvisazione jazzistica qui del tutto assente. Non piacque molto ai fans, ma mi accorgo che personalmente è il lavoro che preferisco fra quelli dei redivivi VDGG. Diversa è la sperimentazione di ALT: pura improvvisazione, senza alcun programma e senza nessun progetto, tanto che si tratta per lo più di riscaldamento di studio o di sound check, divertissement che non era previsto sarebbe stato udito da alcuno. Molto basata su batteria ed organo (e non c'è da stupirsene, visto che Hammill è più cantante che strumentista, e che qui decide di non cantare mai), richiama tanto una band che con i Van Der non ha mai avuto a che fare, i Pink Floyd cosmici di Ummagumma e tutte le band tedesche che ne sono rimaste influenzate, dai Tangerine Dream in la. E un po' di Soundscapes (nelle parti di Hammill).
Già di per sé un disco "sperimentale", il primo nel music biz dopo quarant'anni, avrebbe tutte le carte in tavola per essere tenuto in gran considerazione dai palati fini. Poi è anche molto agradable, a patto ovviamente di essere portati per il rarefatto suono cosmico dei nomi citati, dai Dream ai Floyd ai tedeschi. Si potrebbe obiettare che nessuno avrebbe avuto da ridire se in questa ora (e un minuto) di musica avessero trovato posto anche un paio di canzoni di Hammill, magari come quelle due che chiudono il suo recente disco solista Consequences che sembrano scritte apposta apposta per i Van Der Graaf. Ma non è nello stile di Hammill, rigido classificatore amante della pulizia e del rigore: se ALT doveva essere un disco di echi (Echoes) di improvvisazione nella nebbia, così lo deve essere dagli uccellini della prima traccia alle note dell'ultima.
Blue Bottazzi BEAT
consiglio per l’acquisto: musica strumentale improvvisata con suggestioni fra i Pink Floyd cosmici e i soundscapes.
rating del recensore: ★★★
1 commento:
A me è piaciuto, un disco coraggioso pieno di musica talmente evanescente da diventare quasi liquida e fluente senza nessuno schema, sperimentazione pura, avercene band così al giorno d'oggi
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