Bowie e la stella oscura di Peter Hammill


David Bowie a lungo ha rappresentato la stella polare dell'art rock, ed anche se oggi il suo nome ricorre solo fra i palati più raffinati, ancora ogni sua uscita discografica rappresenta un evento. Un gradino sotto, anche Peter Gabriel si è costruito un mito solido nella storia della nostra musica, a dispetto di una decisa pigrizia artistica: nove dischi un quarant'anni fanno poco più di uno a decennio. Una canzone all'anno, compresi i filler.
Invece Peter Hammill, che raramente si è sottratto all'appuntamento annuale con il proprio pubblico, resta un artista da carbonari.
Bowie era uscito dai radar, senza annunci né clamori, al cambiare del millennio. Quando si è ripresentato dopo una decade, ha trovato ad attenderlo il suo pubblico fedele. The Next Day era uno splendido album, doppio addirittura, ispirato ad uno dei suoi momenti più creativi, quell'Heroes berlinese di cui citava anche la copertina. Alla fine di questo 2015 ha nuovamente stuzzicato il suo pubblico con una canzone, Blackstar, notevole per molti versi. Dura 10 minuti, un record per un singolo da classifica, ed è ricco di momenti di fascino. Una melodia aliena e sfuggente, che si modifica ed evolve nel corso del brano, senza utilizzare artifici come improvvisazioni o ritmi dance; elementi che evocano il suo passato, ma al tempo appaiono inequivocabilmente nuovi. Echi di jazz contemporaneo che vanno e vengono dai confini nebbiosi dell'arrangiamento.
Ce n'è da rimanere affascinati. Da subito, però, mi sono reso conto che il suo ascolto mi evocava altro, oltre alle melodie dello Ziggy Stardust dei primi anni settanta. C'è quel momento nella seconda parte della canzone, quando la melodia orecchiabile viene spezzata ciclicamente da un coro dissonante che ripete "I'm a Black Star", in cui non ho potuto fare a meno di pensare a Peter Hammill, ed i suoi arrangiamenti spigolosi, dove melodie e dissonanze vanno a braccetto.
Tolto dal piatto Blackstar (se si può usare questa metafora per un brano di musica liquida), ho messo gli ultimi due Van Der Graaf Generator, quelli del trio, e ho verificato una naturale continuità di genere. Una volta si registravano playlist ai limiti dell'arte sui natri magnetici delle C90. Oggi ho mischiato sull'iPod Blackstar di Bowie, più la sua precedente Sue (or in a season of crime), ed una quantità di brani di Hammill, con e senza i Van Der Graaf, ed ho pensato con rammarico a quanta grande musica una gran parte del pubblico del rock, ormai ridotto ma attento, si perda.
Cos'è mancato ad Hammill per essere ricordato come Bowie o Gabriel? Solo un po' di malizia. Sarebbe bastato cercare qualche hook e qualche canzone più adatta all'ascolto radiofonico.
La sua discografia è splendida, ma di certo non facilmente praticabile: le sue orme vanno cercate con tenacia su vette innevate e deserti infuocati. Ho cercato di dare il mio contributo alla ricerca dell'isola del tesoro di Hammill attraverso il blog PHVDGG, dove ho cercato, con risultati sotto le mie stesse aspettative,  di disegnare una mappa del tesoro dei suoi dischi.
Aggiungo qui una playlist su Spotify, intitolata significativamente MEET PH, che non è il Best Of, ma semplicemente un teaser, un mazzo di canzoni, eterogenee, che potrebbero rappresentare per le orecchie sensibili del pubblico di Bowie, un capo del filo rosso che introduce alla sua musica.
Provare per trovare.